C'era una volta e credo ci sarà per sempre!

Pubblicato il 2 Giugno 2018

C'era una volta e credo ci sarà per sempre!

Lo scorso mese di maggio il professore Giovanni Madonna mi ha chiesto, durante un seminario, organizzato dall’associazione Le leggi del mondo e patrocinato dall’IIPR (Istituto Italiano Psicoterapia Relazionale) dedicato alla supervisione, di parlare agli astanti dell’esperienza fatta qualche anno prima in un gruppo di supervisione da lui condotto.

Stimolata dalla domanda di Giovanni, mi sono emozionata nel parlare ancora una volta di una professione che mi appassiona fortemente e che come tutte le forti passioni mi dona accanto a molte gioie anche qualche sofferenza. Prima di addentrarmi nelle mie riflessioni voglio però spiegare a chi non è addetto ai lavori cosa sia una supervisione.

La supervisione è uno spazio di riflessione che uno psicologo psicoterapeuta si può ritagliare per confrontarsi con un collega più esperto per meglio rendersi conto delle danze relazionali in cui è immerso nei vari processi psicoterapeuti di cui è parte. Lo psicologo in supervisione racconta, preferibilmente mediante un resoconto scritto, la storia della psicoterapia in atto e, stimolato dalle riflessioni e dalle domande del supervisore e degli altri colleghi presenti (se si tratta di un gruppo di supervisione), può aggiungere ulteriori descrizioni accanto alla propria e curare così maggiormente il processo di cura nel quale è già implicato. Per meglio farvi comprendere tale concetto mi piace riportarvi le bellissime parole del professor Madonna, tratte da un’ intervista che gli feci per questo blog qualche tempo fa: “A volte trovo la relazione di supervisione persino commovente: mi fa venire in mente l’immagine di un essere umano che curva la schiena per prendersi cura di un altro essere umano che curva la schiena per prendersi cura di un altro essere umano… una situazione che trasuda grazia…” (tratto da http://angolodelpensiero.over-blog.com/2014/07/come-mi-piace-lo-psicoterapeuta-che-dice-non-lo-so.html)

Potrete ora forse meglio capire l’emozione da me provata nel dare voce ad alcune riflessioni che oggi provo a riordinare un po’ meglio qui tra le pagine del mio blog.

Due parole mi sono venute in mente prevalentemente, durante lo scorso seminario di maggio pensando al tema della supervisione, quella di “favola” e quella di “evoluzione”.

Perché favola? Perché fin da bambini istintivamente ci rendiamo conto di quanto possa essere riconciliante con le nostre paure (del buio, del silenzio, di uno stato differente di coscienza ecc.) delegare il racconto di una storia a un adulto, a una persona reputata da noi più saggia cui affidarci. Certo le favole da piccoletti spesso ce le siamo raccontati anche da soli ma quanto più confortante era chiedere a qualcuno più grande di età, di narracele più e più volte aggiungendo elementi di volta in volta nuovi a quanto da noi immaginato. Beh in effetti anche noi psicoterapeuti facciamo un po’ questo: rinarriamo con i pazienti le loro storie, ponendo accanto alle narrazioni che loro già conoscono o che credono di conoscere, anche le nostre. Il bello del nostro mestiere e che, però, al termine non offriamo ai pazienti dei pericolosi “lieti fine” ma “lieti in mezzo”, ossia aiutiamo il “narratore” ad accettare la possibilità di incontrare durante il proprio percorso possibili altri “draghi” (limiti, fragilità, sofferenze) e lo aiutiamo a contare sulla possibilità di poter ritrovare anche quelle “eroiche risorse combattenti” che sono accanto ai draghi tanto temuti, per procedere con coraggio nonostante le paure.

Durante la supervisione anche noi psicologi non facciamo altro che raccontare le storie dei nostri pazienti affidandole, così, alla rinarrazione di un “saggio” e di altri colleghi per “andare a dormire” più sereni, non avendo paura dei nuovi “draghi” che ci aspettano sul nostro percorso professionale e per ricordarci che non siamo chiamati a diventare “eroi” ma a riconoscere la meravigliosa possibilità di chiedere aiuto se ne sentiamo la necessità.

Perché evoluzione? Perché credo che una delle scoperte più importanti che ha fatto l’uomo sia stata quella del linguaggio: gli uomini primitivi hanno vinto la paura più grande, quella legata al senso di morte, attraverso la comunicazione. A mio avviso da quando gli esseri umani hanno deciso di assumersi la responsabilità di avere un proprio punto di vista sul mondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio hanno consentito alla nostra specie di evolvere più di quanto sia riuscita a fare  qualsiasi altra specie presente sul pianeta, perché nel linguaggio c’è proposta di relazione, c’è la volontà di mettersi in connessione con gli altri, di condividere e di tesaurizzare i propri saperi di fronte alle tante incertezze della vita.  Nel linguaggio l’“altro” c’è anche in termini di generatività: è dai primi geroglifici che gli uomini hanno iniziato a lasciare qualcosa alle future generazioni, comunicando la propria esperienza e consentendo ai posteri di imparare dai propri errori. Oggi che siamo nell’era del 3.0 in cui svariati sono i canali comunicativi messi a nostra disposizione, in cui la tecnologia produce molto rapidamente nuovi modi di stare al mondo, credo che la cura dei processi comunicativi sia fondamentale perché le storie che ci stiamo raccontando propongono mondi. L’uomo moderno, in uno stato di profonda precarietà economica, valoriale, esistenziale, preoccupato ahimè per questa ragione sempre più a difendere il proprio senso d’identità, rischia di chiudersi in se stesso, di lasciare quel “fuoco” e di abbandonare il prezioso senso di comunità, sovente, rischia di difendersi dall’”altro”, dal “diverso”, con diffidenza o ancor peggio con violenza e aggressività. Il senso di angoscia, che spesso s’irradia anche attraverso le notizie diffuse tramite i mezzi di comunicazione, meriterebbe una “cura” e io credo e spero che la nostra professione dovrà occuparsi ancora di più di questi delicati aspetti e non solo nelle stanze della clinica. Se ripenso all’esperienza di supervisione di gruppo, fatta all’Iipr Napoli con Giovanni Madonna qualche anno fa, mi viene da pensare con speranza a un gruppo di colleghi seduti in cerchio intorno un tavolino (il nostro "fuoco") per sentirsi più forti nonostante le fragilità, creando comunità per dare vita a nuove possibilità in tante storie.

Ed è per questo che ho scelto di prendere parte a un nuovo gruppo di supervisione per non perdermi la possibilità di “fare comunque bei sogni”, nonostante le tante difficoltà, e di “evolvere” e non solo invecchiare come psicoterapeuta, almeno lo spero!

Roberta De Martino

Psicologa e psicoterapeuta

 

 

 

 

 

Scritto da Roberta De Martino

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