"Come mi piace lo psicoterapeuta che dice : non lo so!"...

Pubblicato il 25 Luglio 2014

Giovanni Madonna
Giovanni Madonna

“Come mi piace lo psicoterapeuta che dice: non lo so”, in questa nota affermazione di Giovanni Madonna è racchiuso, a mio avviso, tutto il suo modo di “essere” (e non di fare) lo psicoterapeuta. E’ contenuta qui tutta la sua disponibilità a cambiare costantemente punto di vista con uno sguardo umile che, contemplando la complessità della conoscenza, riesce a tollerare con saggezza l’incertezza e il dubbio. Oggi le pagine di questo blog hanno la fortuna di poter ospitare, ancora una volta, il pensiero arricchente e stimolante di questo prezioso didatta dell’IIPR (Istituto Italiano Psicoterapia Relazionale) che, scevro da forzati tecnicismi, propone una pratica della psicoterapia fondata sulla sensibilità.

Qual è il “mentore” cui è maggiormente riconoscente se ripensa al suo percorso formativo?

Il mentore…uhm… Mentore fu l’itacese cui Ulisse affidò il piccolo Telemaco prima di partire per la guerra di Troia, perché gli facesse da guida durante la sua assenza… in questo senso, in senso stretto, non posso dire di avere avuto un mentore nel mio percorso formativo… non sono stato affidato da qualcuno a qualcun altro perché mi facesse da guida… in senso lato ho avuto un mentore, sì, e ce l’ho ancora… ma nella relazione con lui sono stato insieme Telamaco e Ulisse…

L’affidato e l’affidatario… mi incuriosisce… a chi sta facendo riferimento?

A Bateson, a Gregory Bateson. Mi sono imbattuto in Verso un’ecologia della mente –uno dei suoi testi più importanti - durante il mio corso di laurea in psicologia, alla Sapienza, e da allora non ho più smesso di leggere i suoi libri. È stato - ed è - lui il mio mentore, il mio punto di riferimento nel percorso formativo e in quello professionale, sia sul versante della clinica sia su quello della didattica.

Da quanti anni esercita la professione di psicoterapeuta?

Da oltre trent’anni. Mi sono laureato nel ’79… allora la professione non era ancora regolamentata… né quella di psicologo né quella di psicoterapeuta… così, appena laureato, con molta faccia tosta, “mi misi sul mercato” – come si dice – e cominciarono ad arrivare i primi pazienti, inviati quasi esclusivamente da amici e parenti… contemporaneamente iniziai il mio percorso di formazione alla psicoterapia, a Roma, presso l’Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale.

Lo psicoterapeuta è colui che…

È colui che… coltiva per sé l’assunzione di una “postura mentale” che favorisca un pensiero non accanito e non concupiscente… e che, con questa postura mentale, lavora in maniera integra, rispettosa e non intrusiva… questo non vuol dire - si badi bene - assumere un atteggiamento di quieta contemplazione e rinunciare a qualsiasi tipo di intervento… vuol dire rinunciare all’intervento unilaterale e proporre nuove possibilità, che attengono all’essere in relazione e che, “affidate” al processo stocastico, potranno – o no – per vie imprevedibili, generare salute e benessere.

Rammenta ancora il suo primo paziente? Cosa ricorda di quell’incontro?

Fu un uomo che mi chiese aiuto perché soffriva di un “crampo dello scrivano psicogeno”. Così mi disse nel corso del nostro primo incontro riferendo una diagnosi ricevuta da un altro professionista (non ricordo bene di che tipo di professionista si trattasse… se di uno psichiatra, di un neurologo o di altro…) cui si era rivolto prima di rivolgersi a me… si trattava di una diagnosi che io non avevo mai sentito pronunciare, fino a quel momento. Cosa ricordo di quell’incontro? Uhm.. be’… ero un giovane professionista con grande considerazione di sé… ricordo la sicumera con cui gli dissi - accettando di prendermi cura di lui, in psicoterapia - che credevo di poterlo aiutare a superare il problema che lo affliggeva e che credevo che non ci sarebbe stato bisogno di molto tempo…

Chi la aiutò maggiormente nei primi anni della sua formazione da psicoterapeuta?

Luisa Martini… lei senza dubbio. È stata la didatta per me più importante. È stata il mio supervisore nel secondo biennio di quel percorso, il biennio in cui si andava oltre le simulazioni e si entrava in contatto con i pazienti veri, con le coppie e con le famiglie vere… Luisa mi ha insegnato – dimostrandomelo - che ci sono poche cose che non si possono dire in seduta, se le si dice in maniera integra, senza doppiezze e senza infingimenti, e con la sollecitudine non arrogante di chi ha a cuore il benessere delle persone che gli chiedono aiuto. E mi ha insegnato a coltivare, in seduta, un clima di “calore moderato”, capace di facilitare un incontro che sia “fra persone” ma, allo stesso tempo, non confusivo. La relazione di supervisione con Luisa è stata di grande importanza per me, nel mio percorso di formazione alla psicoterapia.

Il termine ‘supervisione’ ha una chiara etimologia: supervidēre, ossia vedere da sopra, sorvegliare, che idea ha lei della supervisione?

“Vedere da sopra”, sì, ma con sollecitudine … A volte trovo la relazione di supervisione persino commovente: mi fa venire in mente l’immagine di un essere umano che curva la schiena per prendersi cura di un altro essere umano che curva la schiena per prendersi cura di un altro essere umano… una situazione che trasuda grazia… Credo che si tratti di un processo di fondamentale importanza in relazione all’esercizio della psicoterapia. Per lo psicoterapeuta, il processo di supervisione coltiva insieme umiltà e attenzione responsabile: l’umiltà di cui ha certamente bisogno per poter considerare il paziente capace di insegnargli qualcosa circa i processi del proprio ammalarsi e del proprio guarire e per poter essere, così, rispettoso e non arrogante nella relazione con lui; e l’attenzione responsabile di cui ha certamente bisogno per poter diventare del suo paziente - per usare le parole di Carl Whitaker – il temporaneo “genitore affidatario”.

Che ruolo gioca il gruppo nella formazione?

Il gruppo è importante, è molto importante, nel processo di formazione. Considero il gruppo, per certi aspetti, come un “divisore”. La con-divisione delle difficoltà relative all’apprendimento di un lavoro complesso e di grande responsabilità e la con-divisione della paura di non esserne all’altezza, rende quelle difficoltà e quella paura più lievi e accettabili: “miracolosamente” ciascun membro del gruppo, opportunamente guidato dal supervisore, può alleggerirsi delle sue difficoltà e della sua paura senza appesantirsi di quelle degli altri. Per altri aspetti, considero invece il gruppo come un “moltiplicatore”. Il lavoro comune consente a ciascuno di nutrirsi dell’esperienza formativa dell’altro e di realizzare, per questa via, una crescita personale e professionale che avrebbe richiesto molto più tempo e molto più lavoro se fosse stata perseguita in un setting “individuale” di insegnamento/apprendimento. Certo, ritengo preziose anche le opportunità “individuali” di formazione; un’esperienza di coterapia con un proprio didatta o supervisore, per esempio, può essere molto istruttiva e può avere grande valore formativo. Cionondimeno, ritengo l’esperienza di formazione in gruppo preziosa e insostituibile.

Roberta De Martino

I due testi scritti da Giovanni Madonna
I due testi scritti da Giovanni Madonna

I due testi scritti da Giovanni Madonna

Giovanni Madonna durante una gornata di formazione all'IIPR (Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale)

Giovanni Madonna durante una gornata di formazione all'IIPR (Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale)

Scritto da Roberta De Martino

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M
Belle parole, e' il calore che nasce da una relazione realmente condivisa. Ho poche esperienze sento che è il lavoro che voglio fare ma non sono i tempi di allora e mi ritrovo in un impasse a volte insostenibile Maria
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R
Cara Maria, aggiunga su fb la pagina Le Leggi del mondo oppure IIPR Napoli avrà così la possibilità di parlare da vicino al professor Madonna del suo impasse... se le va :-)