Essere o non essere: è ancora questo il problema?

Pubblicato il 18 Luglio 2013

 Essere o non essere: è ancora questo il problema?

Articolo del 14 giugno 2012


“Io, ………….., accolgo te, ……………., come mia/o sposa/o.
Con la grazia di Cristo, prometto di esserti fedele sempre,
nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia,
e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.”

E’ questa la sacra formula che viene celebrata nel nuovo rito del matrimonio … “accolgo te nella gioia e nel dolore per tutti i giorni della mia vita” … chissà in quanti, disposti a pronunciare queste importanti parole davanti al sacro altare, sarebbero pronti a prometterle anche a se stessi: “accolgo me nella gioia e nel dolore”; perché nella gioia siamo tutti bravi ad accoglierci, ma col dolore come va? Ci amiamo lo stesso quando lo proviamo? O piuttosto (ammesso sia possibile) vorremmo rivolgerci a un bravo avvocato per divorziare subito da noi stessi?

Il dolore di solito complica la vita, la rallenta, la confonde, ostacolando il fluire leggero degli eventi. E allora che fare? Rinnegarlo, odiarlo e detestarlo. Sono queste le prime risposte che, ahinoi, spesso mettiamo in moto, eppure il dolore è pur sempre qualcosa che fa parte della vita: e poi non è la crisi che induce a ripensare alle scelte compiute e a invogliarci al cambiamento?

Uno dei primi passi da compiere è, forse, quello suggerito da Franco Del Moro nel libro “Riposare nel cuore della tempesta” dove propone di “liberarsi dalle aspettative magiche sul mito di una vita felice e riconoscere che la sofferenza è universale …” non dimenticando che “l’infelicità è fucina della vera saggezza”.

Quando penso all’inquietudine, mi viene in mente subito Amleto, il suo dubbio, quel teschio e mi convinco che, forse, maggiore responsabile di quel “dolore del dolore” e di quell’”angoscia dell’angoscia” è il credersi unici artefici della propria sofferenza. Sarà perché mi accingo a diventare una psicoterapeuta sistemico-relazionale ma devo dire che mi sono sempre chiesta cosa sarebbe accaduto se Amleto avesse smesso di arrovellarsi da solo su quel dubbio esistenziale e avesse convocato, invece, la famiglia e le sue relazioni più significative per parlare del suo “problema”, la storia sarebbe comunque finita così tragicamente? E’ in quell’eterno responsabilizzarsi di tutte le angosce del proprio quotidiano che forse risiede la chiave della vera infelicità. Sempre Del Moro, nel libro su citato, parla di come “non possiamo capire le ragioni del disagio che è in noi se nel contempo non ci occupiamo anche del disagio che è intorno a noi, e lontano da noi” … non dobbiamo “sottrarre al mondo le sue responsabilità per farle ricadere tutte su di noi”. La tendenza all’auto colpevolizzazione può indurci a invidiare la superficialità di chi non è a conoscenza delle proprie problematicità e che, ignaro, va in giro per il mondo beato e inconsapevole, con un atteggiamento diametralmente opposto a quello del “povero Amleto”: imputando sempre all’altro le proprie mancanze e i propri insuccessi.

E allora, mi e vi domando, perché non gettare quel teschio e accogliersi nella gioia e nel dolore? Magari ricordandosi che i propri “dolori” sono legati a sistemi di convivenza non più adeguati che ci fanno soffrire e che forse sono da cambiare?

Psicologa Dott.ssa Roberta De Martino

Scritto da Roberta De Martino

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