“Il colloquio clinico” nell’esame di stato: alcune riflessioni

Pubblicato il 13 Luglio 2013

“Il colloquio clinico” nell’esame di stato: alcune riflessioni

articolo dell'11 giugno 2012

Dopo la laurea in Psicologia e un anno di tirocinio presso l’Unità Operativa di Psicologia Clinica, Psicoterapia e Formazione Psicodinamica dell’Asl Napoli 1 ds 31, abbiamo confrontato quanto appreso sui testi con il bagaglio esperienziale acquisito all’UOPC e ci siamo trovate a mettere in discussione, alla luce di quanto sperimentato, nostri stereotipi e rappresentazioni, costruiti negli anni di studio, su cosa faccia lo psicologo. Da quel confronto nacquero una serie di riflessioni di gruppo sulla nostra professione, a partire dal delicato concetto di diagnosi, che troviamo interessante riproporvi in questo lavoro.

La parola diagnosi deriva dal greco e significa “conoscere attraverso qualcosa” o “per qualcosa”. La diagnosi è un aspetto fondante la professione dello psicologo, è un processo strutturato di conoscenza del cliente (individuo, coppia o famiglia) che, avvalendosi fondamentalmente di due strumenti metodologici (il colloquio clinico e i test psicologici), consente di ottenere informazioni sulla natura, l’entità e, eventualmente, le cause del problema presentato. La diagnosi psicologica non consiste nell’inquadramento di una malattia e non è una mera classificazione dei sintomi: essa è un procedimento articolato, caratterizzato da molteplici finalità che, tenendo conto della complessità e dell’unicità di ogni individuo, ne propone una comprensione. La medicina e, quindi, la psichiatria, invece, hanno considerato per anni la diagnosi un punto necessario da cui partire per fornire una descrizione della situazione, rintracciare la causa del disturbo e stabilire la cura, considerata una fase necessariamente successiva sul piano temporale. Attraverso l’anamnesi, gli elementi clinici obiettivi, i dati di laboratorio, le condizioni di vita del paziente, il medico cerca di incasellare l’utente entro certi precisi parametri, che non lascino adito a confusioni, in maniera tale che, a quadri diagnostici di malattie individuate e conosciute, corrispondano altrettante precise indicazioni terapeutiche. E’ questa la “clinica” in medicina; la psichiatria, essendo branca della medicina, spesso ne adotta parametri e criteri. In psicologia clinica, invece, non siamo mai di fronte a “malattie”, ma a persone portatrici di un disagio con cui entriamo in relazione. La psicologia clinica è diversa dalle scienze medico-biologiche, per parametri di riferimento e criteri metodologici. Lo psicologo clinico, infatti, avendo come obiettivo la ricerca e la valorizzazione dell’individuo, qualifica la sua azione, indirizzandola verso quelle risorse che possono essere mobilitate, utilizzando “modelli complessi che riconoscono l’importanza degli aspetti relazionali e contestuali sia nella eziologia che nella cura delle malattie[1]” secondo un orientamento socio-costruzionista. Secondo tale prospettiva, “il risultato dell’intervento dell’operatore è considerato esito di un processo interattivo tra i cui elementi costitutivi figurano i sistemi di significato e di rappresentazione di tutti i soggetti coinvolti, non presi separatamente, ma per come si coordinano nell’azione congiunta”, a differenza di quanto accade nella prospettiva istruttiva, propria del campo medico, in cui “il risultato è concepito come esito di un’applicazione di protocolli tecnici, di procedure operative e di teorie di riferimento[2]”.

Nel processo diagnostico lo psicologo, attraverso il rapporto interpersonale, evoca e osserva una serie di dati, che ritiene rilevanti in relazione ad un contesto teorico. In psicologia clinica non esistono categorie “diagnostiche” precise sui disturbi, sui problemi, sulla domanda che le persone rivolgono allo psicologo: fare una diagnosi non significa ricercare la verità, ma costruire il proprio agire attraverso ipotesi complesse e processuali. Conoscere non è un’operazione di scoperta in quanto <<colui che descrive non può uscire dall’unità per considerare i confini e l’ambiente, ma è associato con il funzionamento dell’unità in quanto componente che la determina: in ogni fase il rapporto dell’osservatore con il sistema modifica la sua relazione con il sistema stesso[3]>> (Varela, 1979). Sullivan (1953) sosteneva che il clinico non osserva il paziente ma osserva la propria interazione con lui: la diagnosi include il terapeuta che è parte del campo di osservazione. Il terapeuta diventa co-partecipe e responsabile delle risposte che assieme all’individuo co-costruisce.

Alla luce di quanto esposto, dunque, occorre ripensare il concetto di “diagnosi” e del “fare diagnosi” in psicologia clinica, ove centrale diventa la relazione che si va a costruire tra clinico e cliente: <<la psicologia non ha elaborato categorie diagnostiche precise, perché il suo obiettivo non è quello di correggere un deficit, bensì quello di promuovere sviluppo. Lo sviluppo non parte da una diagnosi sull’altro, bensì da un pensiero dell’altro sulla dinamica emozionale che pone problemi, difficoltà allo sviluppo stesso[4]>> (Carli et al., 2005). La relazione ha una configurazione psicologica, è il luogo della psicologia, scienza che fonda, sull’analisi della relazione, la sua competenza a intervenire. Dare la giusta importanza alla relazione consente di far sviluppare la persona nel suo contesto, contribuisce alla modificazione della simbolizzazione affettiva collusiva, costruttiva dei contesti che sono il teatro del problema portato come “sintomo” allo psicologo.

L’Esame di Stato per l’abilitazione alla professione di psicologo, che consente l’iscrizione all’Albo Professionale sin dalla sua istituzione, con la legge 56/89, prevede diverse prove. Una di queste consiste nella discussione di un caso clinico presentato al candidato con l’ausilio di brevi narrazioni, in cui vengono raccontate alcune storie cliniche, corredate da precise informazioni sui diversi disturbi e sintomi presentati. All’esaminando, sovente, è richiesto di formulare, di fronte a tale insieme di aspetti, un’ipotesi diagnostica e di individuare le linee per un intervento. Tale tipo di consegna, essendo principalmente incentrata su aspetti sintomatologici ed essendo piuttosto scarna circa altri rilevanti elementi della storia del paziente e dei suoi contesti interazionali, rischia di mandare in confusione il giovane laureato che, intimorito e spaesato, finisce spesso per esprimere la sua diagnosi, ricorrendo a categorizzazioni diagnostiche di stampo psichiatrico, come ad esempio il DSM IV, rassicurato dall’illusoria convinzione di operare in modo inopinabile. In questo modo il principiante, però, corre il rischio di incominciare a considerare la diagnosi non come qualcosa che va costruito, bensì come qualcosa che esiste indipendentemente da lui, senza tenere in conto l’aspetto fondante dell’intervento psicologico, cioè la relazione che s’istituisce tra clinico e utente. Dopo aver svolto un anno di tirocinio presso l’UOPC dell’Asl Napoli 1 Centro ds 31, abbiamo dovuto affrontare l’Esame di Stato, durante la preparazione del quale, anche noi ci siamo trovate di fronte alla difficile scelta: affidarsi alle mani “sicure” della categorizzazione psichiatrica del DSM IV, allontanandosi da quanto assimilato durante il tirocinio, oppure provare a mettere in pratica quanto appreso operando con strumenti psicologici di nostra competenza? Siamo uscite dall’impasse grazie ad uno stimolante confronto con la dottoressa Antonietta Bozzaotra e la dottoressa Ester Ricciardelli, con le quali abbiamo riflettuto sul concetto di diagnosi in psicologia clinica e sugli aspetti fondanti la nostra professione, giungendo alla conclusione che l’utilizzo delle classificazioni psichiatriche, precostituite ed “impacchettate”, in sede di Esame di Stato, rischia di allontanare l’inesperto psicologo dalle proprie categorie di riferimento, generando una pericolosa confusione. Fare diagnosi, in psicologia, è un processo dinamico ed interattivo che lo psicologo realizza con il suo paziente. Clinico e utente, infatti, come già precedentemente esposto, sono in un processo di coevoluzione e ricodificazione che nessuna “statica” etichetta diagnostica è in grado di cogliere: nella relazione l’osservatore osserva anche se stesso come oggetto e tale osservazione lo cambia come soggetto, ciò vuol dire che, in questo processo di conoscenza, a cambiare non è solo il paziente ma anche lo psicologo. Il clinico, nel riconoscere di far parte egli stesso del campo di osservazione, nel fare diagnosi, riconosce e valuta anche gli effetti del proprio operato all’interno del sistema nel quale sta intervenendo.

Bibliografia

Carli R., Paniccia R.M., Analisi della domanda. Teoria e tecnica dell’intervento in psicologia clinica, Il Mulino, Bologna, 2003
Carli R., Paniccia R.M., Casi clinici. Il resoconto in psicologia clinica, Il Mulino, Bologna, 2005
Fruggeri L., Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psico-sociali, Carocci, Roma, 2009
Saraceni C., Diagnosi e conoscenza, in “Rivista di Psicologia Clinica” (anno I n.1), La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1987
Telfner U., Il rapporto terapeuta-paziente, ovvero il sistema osservante, in “Dall’individuo al sistema”, Bollati Boringhieri, Torino, 1991

Psicologa Dott.ssa Roberta De Martino (robertademarti80@alice.it)

Psicologa Dott.ssa Maria Laura Testa (marialaura.testa@libero.it)

Scritto da Roberta De Martino

Repost0
Per essere informato degli ultimi articoli, iscriviti:
Commenta il post